Quando si viaggia, non tutto fila liscio.
A volte si cambia rotta, si devia, si ricalcola.
Ed è proprio in quei momenti, quelli fuori dal programma, che succedono le magie.
Così è stata la nostra giornata da Bukhara a Samarcanda, che ha preso una piega inaspettata ma decisamente affascinante.
La nostra sveglia ha suonato presto: direzione Samarcanda, circa 300 chilometri di strada uzbeka.
L’itinerario iniziale prevedeva una tappa a Shakhrisabz, la città natale di Tamerlano, con le rovine del suo Palazzo, la Cripta e il complesso funerario Dorus Saodat.
Ma la realtà delle strade dell’Uzbekistan ci ha costretti a un “piano B”: dissestate, sconnesse e a tratti impercorribili, quelle che avrebbero dovuto condurci a Shakhrisabz si sono trasformate in una deviazione obbligata.
Ma chi l’ha detto che i piani alternativi siano peggiori?
Se volete immergervi ulteriormente nella cultura Uzbeka, ho preparato una piccola selezione di musica.
Prima tappa: Vabkent, il minareto che sfidò Gengis Khan
A circa 30 km da Bukhara ci fermiamo a Vabkent, dove si erge un minareto pre-mongolo del XII secolo alto circa 40 metri.
Vabkent, oggi cittadina tranquilla e spesso ignorata dai grandi itinerari turistici, un tempo era una piccola ma vivace stazione sulla rotta che univa Bukhara a Khorezm, lungo uno dei tanti rami minori della Via della Seta.
Nonostante le sue dimensioni contenute, la città aveva un ruolo strategico come punto di sosta per le carovane e come centro artigianale.
Minareto di Vabkent
È ancora lì, in piedi e intatto, nonostante il passaggio distruttivo di Gengis Khan.
Realizzato in cotto, sembra un cugino più snello e silenzioso del Minareto Kalyan.
Sul fusto del minareto, tra le fasce decorative in mattoni smaltati e i motivi geometrici, si celano iscrizioni cufiche non solo religiose.
Gli studiosi hanno scoperto una firma: Burhan al-Din Abd al-Aziz, il costruttore. Un gesto raro per l’epoca, quasi una “firma d’artista”.
Si pensa che fosse un architetto itinerante, che lavorò anche alla moschea Magok-i-Attari di Bukhara.
Minareto di Vabkent
Un’altra stranezza affascinante: al tramonto, il minareto sembra cambiare colore. Da marrone caldo diventa di un color miele-dorato, come se riflettesse l’anima del deserto.
Alcuni anziani del posto credono che questo sia dovuto a una benedizione nascosta tra i mattoni, inserita da un mistico sufi durante la costruzione per proteggerlo dal tempo (e forse anche da Gengis Khan!).
Oltre alla bellezza architettonica del minareto di Vabkent, c’è una leggenda locale che racconta perché “non fa rumore”.
Si dice infatti che durante la sua costruzione, il muezzin che avrebbe dovuto salire per la prima chiamata alla preghiera perse la voce proprio quando arrivò in cima.
Gli abitanti lo interpretarono come un segno divino: il minareto non avrebbe dovuto “parlare”, ma semplicemente osservare e ricordare.
Da quel momento, nessuno ha mai più fatto la chiamata dall’alto, e il minareto è rimasto silenzioso… ma testimone di secoli di storia.
Un monumento che non fa rumore ma racconta molto.
A pochi metri dal minareto si trovano le basi in pietra di quello che fu un Caravanserraglio, oggi quasi completamente scomparso.
Ma c’è una pietra incassata nel terreno che viene chiamata “pietra dei sogni”: si narra che i mercanti vi poggiassero la testa durante il riposo, sperando di ricevere in sogno indicazioni per i loro affari o visioni del futuro.
Piccola nota di viaggio: il tè più profumato dell’Uzbekistan?
Se ti fermi a Vabkent e trovi un chaykhana (casa da tè) ancora frequentata dai locali, prova a chiedere il “choy Vabkent”: un infuso tradizionale a base di tè verde, menta secca e un pizzico di semi di coriandolo. Si dice che questa ricetta fosse usata proprio per rilassare i mercanti prima della partenza, e che sia una delle più antiche dell’area.
Gijduvon: la meraviglia che non ti aspetti
Proseguiamo verso Gijduvon, una cittadina che si è guadagnata il suo posto nella storia per essere uno dei centri ceramici più importanti dell’Asia Centrale.
Gijduvon non è solo una tappa tra Bukhara e Samarcanda: è un piccolo mondo antico, incastonato nel cuore dell’Uzbekistan, dove il tempo sembra rallentare tra i cortili in mattoni e i profumi di tè al cumino. Ma sotto questa calma apparente, si nasconde un’energia unica fatta di arte, scienza e spiritualità.
Madrasa di Ulugh Beg
Appena arrivati, visitiamo la Madrasa di Ulugh Beg, la terza e ultima costruita dallo scienziato-astronomo.
La madrasa di Gijduvon, costruita attorno al 1430, è l’ultima delle tre volute da Ulugh Beg, il sovrano-astronomo nipote di Tamerlano.
Qui, però, non cercava la grandezza, bensì l’essenza. Si dice che la fece costruire non per i posteri, ma per se stesso, come luogo dove poter insegnare astronomia e matematica in silenzio.
Più piccola e semplice rispetto a quelle di Samarcanda e Bukhara, ma non per questo meno affascinante: piastrelle smaltate, maioliche colorate, geometrie che sembrano uscite da un caleidoscopio.
Complesso della Madrasa di Ulugh Beg
Curiosità storica: alcune iscrizioni recuperate nei restauri recenti suggeriscono che qui Ulugh Beg sperimentò modelli didattici più interattivi con gli studenti, un po’ come una “classe laboratorio” ante litteram.
Leggenda vuole che nelle notti limpide, l’angolo sud-ovest della madrasa venisse usato da Ulugh Beg per osservare le costellazioni, servendosi di semplici strumenti ottici che teneva nascosti tra le piastrelle decorative (una sorta di “tavolo astronomico a cielo aperto”).
Tomba di Abduholik Gijduvoni
Proprio dietro la madrasa si trova la tomba di Abduholik Gijduvoni, sufi del XII secolo, considerato il fondatore del ramo Khvajagan, scuola mistica che fu poi abbracciata da Baha’uddin Naqshbandi.
Curiosità mistica: si narra che Gijduvoni non parlasse mai ad alta voce.
Insegnava solo sottovoce o nel cuore, e che ancora oggi, chi si ferma in silenzio presso la sua tomba può ricevere ispirazioni interiori.
Gli anziani del posto consigliano di portare un pensiero o un dubbio, e restare lì in silenzio per almeno 7 respiri.
La risposta, dicono, arriva sempre.
Dove la ceramica… canta (sul serio)
Entrare nel laboratorio Narzullaev è come varcare la soglia di un mondo sospeso tra passato e arte.
Da sei generazioni questa famiglia plasma l’argilla con gesti tramandati, amore e fatica.
Ceramica di Gijduvon
Lavorano una miscela di argilla scavata fino a un metro e mezzo di profondità, usano smalti minerali dai colori naturali: il rosso del monte Karnab, il giallo del deserto di Kyzylkum, il bianco dalle colline di Tashkent.
Le decorazioni sono tutte fatte a mano, con motivi geometrici, vegetali e zoomorfi, su basi bianche, ocra o rosse.
Ceramica di Gijduvon
E poi arriva la parte più affascinante: la cottura.
I piatti vengono capovolti e impilati, separati da treppiedi in ceramica.
Questo fa sì che lo smalto coli e “pianga”.
Proprio così: le gocce lasciate dallo smalto sono considerate un pregio, una firma.
Ceramica di Gijduvon
E, una volta lavata, la ceramica di Gijduvon emette un suono, un crepitio, come se volesse raccontare qualcosa. Canta, letteralmente.
Infine, una leggenda locale racconta che ogni volta che un pezzo di ceramica viene cotto con amore, il forno emette un suono simile a un sussurro o a un breve canto.
I ceramisti più anziani dicono che è la voce dello spirito del fuoco, soddisfatto del lavoro ben fatto.
Se senti un suono simile… non è il vento, ma la magia di Gijduvon che ti parla!
Un pranzo da ricordare… con ospiti d’eccezione
Dopo la visita, ci attende un pranzo tradizionale delizioso, con piatti tipici e l’immancabile tè verde.
Nel cortile, un asino gira intorno a un vecchio mulino, mentre poco più in là ci aspetta uno degli incontri più divertenti del viaggio: le pecore Karakul, una razza antichissima citata perfino da Marco Polo.
Pecore Karakul
La loro particolarità? Una riserva di grasso sotto la coda così esagerata da averci fatto coniare un soprannome affettuoso: le pecore “Kardashian”. O, per i fan del pop, le “Nicki Minaj uzbeke”.
Resilienti, eleganti e sorprendenti, come questo Paese.
Ultima sosta: Rabati Malik, acqua e carovane
Risaliti sul bus, ci dirigiamo verso Samarcanda, ma prima ci fermiamo al Rabati Malik Sardoba, un serbatoio d’acqua del XI secolo, scavato per oltre 13 metri di profondità.
Rabati Malik Sardoba
Alimentato dal fiume Zaravshan, serviva a dissetare i carovanieri della Via della Seta, che viaggiavano di notte per sfuggire al caldo torrido.
Una cupola di 12 metri ne proteggeva il contenuto, mantenendo l’acqua fresca per tutta l’estate.
Di fronte, oltre l’autostrada, si trovano le rovine del maestoso Caravanserraglio Rabati Malik, un tempo dimora di viaggiatori, mercanti e animali.
Caravanserraglio Rabati Malik
Costruito in terracotta e decorato con stelle a otto punte, conserva uno dei portali più antichi dell’Asia Centrale.
Un colpo d’occhio che sa di epoche lontane e di viaggi leggendari.
Riprendiamo la strada verso Samarcanda con negli occhi mille immagini: l’arte delle mani, il canto della ceramica, l’umorismo delle pecore, la sabbia, l’acqua, la storia.
E pensare che tutto è iniziato con un cambio di programma.
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